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MISERICORDIAE VULTUM IN AETERNUM ADOREMUS

MISERICORDIAE VULTUM IN AETERNUM ADOREMUS

.."[O Dio] continua ad effondere su di noi il tuo Santo Spirito, affinché non ci stanchiamo di rivolgere con fiducia lo sguardo a colui che abbiamo trafitto: il tuo Figlio fatto uomo, Volto splendente della tua infinita misericordia, rifugio sicuro per tutti noi peccatori bisognosi di perdono e di pace nella verità che libera e salva. Egli è la porta attraverso la quale veniamo a te, sorgente inesauribile di consolazione per tutti, bellezza che non conosce tramonto, gioia perfetta nella vita senza fine .."
(PAPA FRANCESCO)




Fotomontaggio realizzato da Antonio Teseo
LA DIAPOSITIVITA' NEL SUDARIO DI CRISTO DEL SANTO VOLTO DI MANOPPELLO

La diapositività nel Volto Santo di Manoppello

La diapositività nel Volto Santo di Manoppello
LE PIEGHE DEL S.S. SUDARIO DI CRISTO DEL VOLTO SANTO DI MANOPPELLO RINTRACCIABILI NELL'IMMAGINE DELLA S. SINDONE DI TORINO.
SOVRAPPONENDO AL COMPUTER LA FIG. 1 DELLA S. SINDONE ALLA FIG. 3 DEL VOLTO SANTO DI MANOPPELLO, MEDIANTE L'UTILIZZO DI UN FILTRAGGIO IN GRAFICA DI RAFFORZAMENTO DI CONTRASTO VIENE ALLA LUCE IL VOLTO CRUENTO DELLA PASSIONE DEL REDENTORE "FIG. 2". NEL VOLTO TRASFIGURATO DELLA FIG. 3, RITROVIAMO LE TRACCE EMATICHE APPENA PERCEPIBILI PERCHE' SI ERANO ASCIUGATE SUL VOLTO DEL RISORTO. ESSE SI PRESENTANO ANCHE EVANESCENTI, COME MACCHIE IMPRESSE SUL SUDARIO, PER LA SOVRAPPOSIZIONE ALLE STESSE DELLA LUCE DEL PADRE PROVENIENTE DALLA DIREZIONE IN CUI GUARDANO I MIRABILI OCCHI DEL SALVATORE.

Le pieghe del S.S Sudario di Cristo del Volto Santo di Manoppello rintracciabili nella S. Sindone

Le pieghe del S.S Sudario di Cristo del Volto Santo di Manoppello rintracciabili nella S. Sindone
IL VOLTO CHE HA SEGNATO LA STORIA

Lavoro realizzato in grafica da Antonio Teseo da vedere
con gli occhialini rosso-ciano.
L'animazione si è resa necessaria aggiungerla perché per me rivela i caratteri somatici di un uomo ebreo vissuto poco più
di 2000 anni fa.

L'IMMAGINE CHE HA SEGNATO LA STORIA

Il Miserere del celebre maestro Giustino Zappacosta (n. 1866 - m. 1945) che si canta ogni Venerdì Santo in processione a Manoppello

Giustino Zappacosta è ritenuto uno dei più grandi compositori abruzzesi vissuti a cavallo della seconda metà dell'800 e la prima metà del 900. Allievo del professore e direttore d'orchestra Camillo De Nardis nel conservatorio a Napoli, il compositore di Manoppello divenne maestro di Cappella del duomo di Chieti e insegnante nella badia di Montecassino dove gli successe il maestro Lorenzo Perosi. Nella ricorrenza del IV centenario dalla venuta del S.S. Sudario di Cristo del Volto Santo a Manoppello (1908), il sullodato professor Zappacosta, in arte G. Zameis, diresse il Coro della Cappella del Volto Santo composto dalle voci maschili addirittura di cinquanta elementi.
Tra le più belle opere del musicista ricordiamo:
Musiche sacre - il Miserere, che tradizionalmente si canta a Manoppello durante la processione del Venerdì Santo e che sentiamo nel video; Inno al Volto Santo, melodia che si esegue durante le feste in onore del Sacro Velo al termine della Santa Messa; Vespro festivo a tre voci, dedicato al maestro Camillo de Nardis; Te Deum; Missa Pastoralis "Dona nobis pacem" per coro a due voci e organo; Novena a S. Luigi Gonzaga, a 2 voci con accompagnamento d'organo o armonio.
Romanze - Spes, Ultima Dea; Quando!; Occhi azzurri e chioma d'oro; Vorrei; Tutta gioia; Polka - Un ricordo abruzzese, romanza dedicata alla sig.na Annina de Nardis, figlia del suo maestro Camillo de Nardis; Una giornata di baldoria - composizione di 5 danze: Nel viale - marcia; In giardino - mazurka; Fra le rose - polka; Sotto i ciclamini - valzer; Sul prato - dancing.

Il celebre compositore abruzzese, Francesco Paolo Tosti, oltre ad elogiare le grandi virtù di G. Zappacosta come compositore, lo definiva anche un eccellente organista e un virtuoso pianista. Nel libro intitolato "Immagini e fatti dell'Arte Musicale in Abruzzo" il maestro Antonio Piovano descrive le alte doti musicali del musicista di Manoppello a pag. 85.




L'ora in Manoppello:
METEO DAL SATELLITE

A sinistra, visione diurna in Europa; a destra, visione all'infrarosso.
Sotto, Radar, con proiezione della pioggia stimata: visione Europa e visione Italia.
Nel vedere l'animazione delle foto scattate dal satellite ogni 15 minuti, aggiungere 1 ora con l'ora solare e 2
ore con quella legale all'orario UTC.
Premendo F5, si può aggiornare la sequenza delle immagini, dopo che magari è trascorso del tempo.




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CONTEMPLAZIONE DEL S.S. SUDARIO DI CRISTO CON IMPRESSO IL VOLTO SANTO DI MANOPPELLO.
NELL'ULTIMA SCENA DEL VIDEO TROVIAMO IL SUDARIO CON IL COLORE VIRTUALE DEL BISSO DI LINO GREZZO CHE NELLA TOMBA AVREBBE RICOPERTO IL VOLTO DI GESU' DOPO LA SUA MORTE. SECONDO UNA MIA ACCURATA RICERCA, LE MISURE ORIGINALI DEL TELO DI MANOPPELLO, PRIMA ANCORA CHE FOSSE RITAGLIATO NEL XVII SECOLO, ERANO ESATTAMENTE DI 2 CUBITI REALI X 2 (MISURA STANDARD UTILIZZATA DAGLI EBREI ALL'EPOCA DI GESU' PER DETERMINARE LA GRANDEZZA DEL SUDARIO SEPOLCRALE CHE VENIVA USATO PER ORNARE SOLO DEFUNTI RE O SACERDOTI).
NEL GIORNO DELLA SANTA PASQUA DEL SIGNORE, SUL VELO SAREBBERO APPARSE OLOGRAFICAMENTE IN SEQUENZA, IN UN SOLO LAMPO DI LUCE, LE IMMAGINI CHE VEDIAMO INVECE SCORRERE LENTAMENTE IN SEI MINUTI DI TEMPO.



CONTEMPLAZIONE DEL SUDARIO DI CRISTO CON IMPRESSO IL VOLTO SANTO DI MANOPPELLO

IL VOLTO DI CRISTO TRASFIGURATO DALLA LUCE DEL PADRE

Lavoro eseguito in grafica 3D da Antonio Teseo da vedere con gli occhialini colorati rosso/ciano.
L'animazione virtuale del volto è servita per definire al meglio i lineamenti somatici che, come vedete, secondo uno studio antropologico è di una persona ebrea vissuta poco più di 2000 anni fa. Si tratta della sembianza di Gesù, modello per l'iconografia.

martedì 5 giugno 2012

Il cardinale Ivan Dias pellegrino al Volto Santo di Manoppello


Domenica 3 giugno 2012, i fedeli presenti nella Basilica del Volto Santo di Manoppello hanno avuto la gioia di ricevere la visita di Sua Eminenza Ivan Dias, Prefetto Emerito della Congregazione per la Vangelizzazione dei Popoli. Il cardinale è arrivato pellegrino, nel Tempio del S.S. Sudario di Nostro Signore Gesù Cristo, con un gruppo di preghiera internazionale. Egli era il presule che più di tutti fu vicino a Santa Madre Teresa di Calcutta condividendone le opere a Dio. 

Madre Teresa con Ivan Dias, arcivescovo di Bombay«Tutto fu opera di Dio. Niente fu opera mia» Madre Teresa di Calcutta. Una testimonianza personale a novant’anni dalla nascita di Ivan Dias Ricorre in agosto il novantesimo della nascita di Agnes Gonxha Bojaxhiu, che tutti noi conosciamo come Madre Teresa di Calcutta. Non le piaceva che si scrivesse di lei, ma dei poveri, e dei “più poveri dei poveri”, che ha amato e che le sue mani hanno accarezzato come avrebbero accarezzato Gesù. E se in questo modesto ricordo mi permetterò qualche parola su di lei, sarà, in fondo, per ossequiare tale suo desiderio. Madre Teresa e, vestito di bianco, Ivan Dias, già nunzio apostolico in Albania e oggi arcivescovo di Bombay. Madre Teresa era nata il 27 agosto 1910 Il mio primo incontro con Madre Teresa fu nel dicembre 1964, in occasione del Congresso internazionale eucaristico a Bombay. Ero allora impegnato, quale addetto alla Segreteria di Stato vaticana, nell’organizzazione della visita di sua santità papa Paolo VI. Il Santo Padre aveva portato in India una grande autovettura che gli era stata regalata dagli Stati Uniti, una bellissima Lincoln decappottabile. Alla fine del viaggio papa Montini decise di lasciare la macchina a Madre Teresa: questo atto di donazione fu l’ultimo suo gesto all’aeroporto di Bombay prima di salire sull’aereo di ritorno a Roma. Madre Teresa mise l’autovettura all’asta e il governo indiano le diede l’esenzione dalle tasse d’importazione. E così ella ricavò molti denari per i suoi poveri. Già allora, la Madre irradiava quella bontà che sarebbe poi stata riconosciuta in tutto il mondo. Quel mondo che volle “farla propria” facendole meritare il Premio Nobel per la pace e i funerali di Stato quando morì nel mese di settembre 1997. Quando, nel 1991, fui nominato nunzio apostolico con facoltà di vescovo residenziale per tutta l’Albania, ebbi molte occasioni di incontrarla. Madre Teresa visitò l’Albania – sua patria d’origine anche se era nata a Skopje, nell’odierna Macedonia – almeno otto volte dopo la morte del dittatore Enver Hoxha, che in vita non le permise mai di tornarvi: neppure quando morì sua madre. Ma durante il primo viaggio in Albania dopo la scomparsa del dittatore, Madre Teresa fece visita alla vedova, si recò al cimitero dove si trovava la tomba del dittatore e mise un mazzo di fiori sulla sua lapide. Tale gesto, pieno di carità, fu apprezzato da tutti, cristiani e non cristiani, e anche da coloro che erano stati vittime delle feroci persecuzioni del dittatore. Madre Teresa amava molto la sua madrepatria e in pochi anni aprì in Albania sette comunità delle Missionarie della Carità – le sue “suorine” – e dell’Istituto di fratelli di vita semicontemplativa da lei fondato. Tutti si dedicano con zelo esemplare alla cura dei “più poveri dei poveri”: bambini abbandonati, orfani, portatori di handicap, barboni, senzatetto, moribondi. Nel 1992 il governo albanese fece pervenire un messaggio alla Madre tramite l’ambasciata a Roma: le chiedevano di costruire un ospedale nella capitale Tirana, «per mostrare come bisogna curare gli infermi con dedizione e amore». Fu un gesto anche politico, certo, da parte del governo. Però quelle parole mi colpirono: erano, in ultima analisi, l’intelligente riconoscimento di una realtà. Alla base della richiesta del governo vi era anche la penosa situazione in cui nel 1991 il popolo shqiptár si trovava, dopo quaranta anni di dittatura comunista. In tutto il territorio non mancavano sicuramente né ospedali né medici qualificati, ma medicinali e attrezzature chirurgiche, la pulizia e l’igiene di base, spesso perfino l’acqua per mantenere pulite le mani dei chirurghi prima e dopo gli interventi e per i pazienti. Ricordo una volta che nel corso di un delicato intervento agli occhi, mancò l’elettricità. Molti bambini nascevano con difetti al cuore o con altre infermità, e si sarebbero potuti salvare, se curati tempestivamente. Grazie alla benevolenza di tanti benefattori s’era potuto mandare parecchi di essi in Italia e strapparli dalla morte. Per cui sorse sempre più spesso la domanda: perché non trattare i casi direttamente in Albania, dando lì stesso a più bambini il beneficio di trattamenti qualificati? Ma non bastava solo modernizzare le strutture sanitarie governative esistenti, bisognava – secondo la richiesta albanese a Madre Teresa – insegnare «come trattare i pazienti con amore». Nella realtà fu così. Quando arrivarono le suorine di Madre Teresa piene di fede, di semplicità e di bontà, la gente – i poveri specialmente – si affollava alle porte dei loro conventi per avere un’aspirina, per ricevere qualche parola di conforto, per affidare loro i propri bambini orfani, malati o malnutriti. Certo, non si trattava di insegnare, ma di testimoniare. Gesù era nel volto di quegli umili e sofferenti. La Madre si diceva sempre profondamente scossa dalle parole di Gesù: «Avevo fame, sete, ero nudo, forestiero e mi avete accolto…». Ero presente all’incontro presso la casa romana delle Missionarie della Carità al Celio. Alla domanda del governo albanese la Madre rispose che tale opera non entrava nel carisma del suo istituto e mi chiese se potevo accettare tale proposta come vescovo del Paese. L’accettai volentieri ed invitai a realizzare il progetto la congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione – nota a Roma per il suo contributo nel campo di ricerche mediche all’Istituto dermatologico dell’Immacolata (Idi). Conoscevo quell’istituto religioso da quando, come nunzio apostolico, avevo accolto la sua prima fondazione in Corea del Sud. I piani dell’ospedale presentati dall’Idi impressionarono il governo albanese così bene che il ministro della Sanità propose che l’opera contemplasse la formazione sanitaria, con l’aggiunta di una scuola per infermieri. Per costruire l’ospedale chiedemmo di avere una struttura all’entrata della capitale, che da molti anni era in fase di costruzione ma era rimasta allo stato rustico. C’erano parecchie difficoltà “politico-burocratiche” per ottenere questo edificio, e ne parlammo con Madre Teresa. Ricordo che lei, con la sua bontà proverbiale e l’intrepida fede, visitò l’edificio e mise numerose medaglie della Madonna immacolata – lei le chiamava le “medaglie miracolose” – nelle pareti dell’edificio. Tale gesto di fede fu premiato, perché in poco tempo il governo mise l’edificio a disposizione della Chiesa. Madre Teresa prese talmente a cuore l’opera che ogniqualvolta mi incontrava o mi scriveva chiedeva come progredisse. La Madre non accettò la proposta del governo albanese (e di altri) che l’ospedale portasse il suo nome, ma chiese che fosse chiamato Nostra Signora del Buon Consiglio, venerata come patrona dell’Albania. Lei era sempre stata contraria a che si usasse il suo nome per sollecitare fondi, per qualsiasi fine, ma per il “suo” ospedale mi diede un documento scritto interamente di suo pugno: «Che il Signore benedica coloro che aiuteranno l’ospedale Nostra Signora del Buon Consiglio a Tirana. Gesù ha detto: “Tutto ciò che avete fatto ai più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me. La mia gratitudine a voi sarà la mia preghiera per voi”». Lei stessa non affidò all’immagine di Madre Teresa la riuscita dell’opera, ma alle preghiere. Chi conosce la realtà dell’Albania sa della necessità del Nostra Signora del Buon Consiglio. Mi sia consentito rubare una riga per ringraziare di cuore l’arcivescovo di Tirana monsignor Mirdita e il nunzio in Albania monsignor Bulaitis della loro continua sollecitudine. Nel mio ricordo Madre Teresa non perdeva mai il suo senso del buon umore. Quando visitò l’Albania dopo aver subito un grave intervento al cuore negli Stati Uniti, le dissi quanto eravamo felici di averla tra noi. Mi rispose sorridendo: «Sa che sono andata alle porte del paradiso e san Pietro mi ha guardato arrabbiato e mi ha detto: “Che cosa sei venuta a fare qui? Non sai che in cielo non ci sono slums che ti possano interessare?”». Oggi sono lieto di avere nell’arcidiocesi di Bombay sei comunità di missionari e missionarie della Carità. La loro testimonianza di fede e di ardore mi colpisce e commuove. Umili e fedeli all’esempio della loro fondatrice, i missionari e le missionarie si prodigano in opere di carità per i poveri, i malati, gli anziani e i lebbrosi, e – mentre qui in India vige il rigoroso sistema indù delle caste – li accolgono senza fare alcuna distinzione di appartenenza religiosa o sociale, abbracciano tutti con la trasparenza di un amore gioioso che rispecchia quello di Dio per i suoi figli e imita l’amore di Gesù Cristo, morto per tutti. Di fronte a tanto bene che Madre Teresa ha fatto nel mondo, così tanto che potrebbe sgomentarci, spesso mi sovvengono le sue parole, un ristoro per il mio cuore sempre grato di averla incontrata: «Al momento della professione… scelsi di chiamarmi Teresa. Ma non era il nome della grande Teresa d’Avila. Io scelsi il nome della piccola Teresa: Teresa di Lisieux. Nella scelta delle opere di apostolato delle Missionarie della Carità non vi fu pianificazione né idee prefissate. Iniziammo i nostri lavori via via che si presentarono le necessità o le opportunità. Dio si assunse il compito di mostrarci che cosa volesse da noi momento per momento. Tutto fu opera di Dio. Niente fu opera mia».

«Ha reso visibile il volto di Gesù»

Così il cardinale indiano Ivan Dias riassume l’opera di Madre Teresa. L’arcivescovo di Bombay parla anche della Chiesa cattolica in India, del rapporto con lo Stato e con le altre religioni         

di Giovanni Cubeddu

“La missione nel pontificato di papa Giovanni Paolo II” è il titolo della relazione che Ivan Dias, 67 anni, cardinale e arcivescovo di Bombay, esporrà alla fine del convegno in onore del Papa, sabato 18 ottobre. L’India è terra di missione, lo è stata per Madre Teresa – che Dias conobbe da nunzio in Albania – e lo è nei modi propri della Chiesa indiana (reduce dalla visita ad limina), che Dias qui ci descrive: grande pazienza, apertura, libertà.
Madre Teresa con Ivan Dias, arcivescovo di Bombay
Madre Teresa con Ivan Dias, arcivescovo di Bombay

Eminenza, Madre Teresa viene beatificata...
IVAN DIAS: Al popolo indiano appare un fatto naturale che Madre Teresa sia beatificata, e che un giorno sia anche canonizzata. Perché ciò che lei ha fatto e testimoniato è una cosa viva, è valida anche oggi ed è comprensibile a tutti gli indiani, che sono in maggioranza assoluta non cristiani: indù, musulmani, buddisti, sikh… I cristiani in India sono 23 milioni, il 2,3 per cento di una popolazione di oltre un miliardo di persone, e i cattolici sono solo l’1,8 per cento. Quanto a noi, il popolo di Dio, in tanti in cuor nostro guardiamo a Madre Teresa come ad una santa, che ha reso visibile il volto di Gesù. Lei che di fronte a situazioni penose e difficili non nascondeva d’averle potute affrontare solo perché in quei poveri vedeva Gesù; conservava in cuore quel brano del Vangelo che dice: «Qualunque cosa avete fatto ad uno dei più piccoli l’avete fatto a me». È dunque facile capire perché il governo ha voluto onorarla con i funerali di Stato: un tributo che, salvo personalità istituzionali, dall’indipendenza dell’India contemporanea ad oggi è stato concesso solo al Mahatma Gandhi.
Io spero tanto che questa testimonianza mirabile di Madre Teresa si diffonda sempre di più. A Bombay, ad esempio, si trovano già le sue suore missionarie della carità e i fratelli del ramo maschile da lei fondato, ma da un po’ di tempo vedo anche laici che, sul suo esempio, seguono le suore e i fratelli per le strade e si prendono cura dei più poveri. E questo impressiona tutti, cristiani e non cristiani.
L’episcopato indiano ha svolto di recente la visita ad limina. Come vi siete preparati ad incontrare il Papa? DIAS: È stato un evento normale, direi. Ogni vescovo ha preparato una relazione per la competente Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Le visite ad limina sono programmate su base regionale: noi di Bombay aderiamo alla circoscrizione dell’India occidentale, la Western Region. I primi a visitare il Papa sono stati i presuli siro-malabaresi e siro-malancaresi, appartenenti agli altri due riti cattolici presenti in India. Poi è stato il turno di noi latini. Ogni regione in India ha la sua particolarità, e il Papa lo sa. A noi della circoscrizione occidentale ha però parlato anche dell’India in generale.
A che proposito? DIAS: Censurando il comportamento dei fondamentalisti indù che ostacolano la vita della Chiesa. Il Papa si riferiva ai cinque Stati indiani dove esistono delle leggi che proibiscono le cosiddette “conversioni forzate”. Ad una lettura di buon senso, tali normative non dovrebbero preoccupare in alcun modo la Chiesa cattolica. Ma purtroppo alcuni funzionari governativi talvolta le applicano arbitrariamente, nonostante le ampie assicurazioni dei governi locali e centrale che non esiste assolutamente un’opzione anticattolica e che queste leggi devono far preoccupare solo gruppuscoli e sètte che, dicono loro, convincono la gente a suon di dollari. Chi ha ideato queste norme ambigue sa però che la nostra fede non è una scelta intellettuale, che ci si può convertire perché magari s’è vista un’opera buona, s’è ricevuto qualche beneficio… insomma, anche per qualche buona ragione pratica. Ma questo dai malevoli è ritenuto un’esca e fa scattare i rigori della legge.
Anche se in cinque Stati indiani vigono norme restrittive della libertà dei cristiani, ritengo che ciò non sia un ostacolo insormontabile. Se ad esempio uno vuol essere battezzato pubblicamente, può farlo nello Stato contiguo e il giorno stesso tornare a casa. In definitiva, la vita quotidiana della Chiesa, anche in uno Stato indù, è assai più semplice di quanto non s’immagini. Tra cristiani c’è un dialogo sulla fede condivisa. E con la gente comune, di qualsivoglia religione, c’è il bellissimo dialogo della vita quotidiana.
Lei s’è fatto una ragione di questo atteggiamento di taluni funzionari governativi? DIAS: Beh sì, crediamo che la sorgente principale della durezza di alcuni indù nei confronti della Chiesa risieda nella loro concezione del castismo, che non ammette eccezioni alla gerarchia che dal bramino discende fino al dalit, al fuori casta. Mentre se un uomo si converte al cristianesimo, non apparterrebbe più a nessuna casta, e un fuori casta avrebbe gli stessi diritti del bramino più notabile! Impedire questo è lo scopo di chi vuole fare dell’India uno Stato indù, da contrapporre al Pakistan musulmano, chiaramente cristallizzando il sistema delle caste. Il Papa si è espresso contro questa legge anticonversione perché viola i diritti umani, ed è stato censurato da certi politici indiani, cui ha replicato bene la nostra Conferenza episcopale nazionale.
C’è discriminazione anche contro gli adivasis, che sono gli originari abitanti del Paese. La recente elevazione al cardinalato di un adivasi, monsignor Telesphore Toppo, arcivescovo di Ranchi, è visibilmente un segno che la Chiesa ritiene tutti gli uomini ugualmente figli di Dio.
Un ricovero per indigenti nella città di Malda, in India; si nota sulla destra un quadro con una frase di Madre Teresa
Un ricovero per indigenti nella città di Malda, in India; si nota sulla destra un quadro con una frase di Madre Teresa
Come si può essere cristiani senza con ciò voler rivoluzionare il sistema delle caste? DIAS: Bisogna dire onestamente che il numero degli indù ostili alla Chiesa è assai ridotto, sebbene alcuni di essi siano oggi al governo. Non è questa comunque la convinzione della gente comune, perché l’induismo come tale ammette le altre religioni, e nella nostra vita quotidiana c’è molta convivenza armoniosa: anche perché gli indù vedono che le opere dei cristiani sono aperte a tutti, senza alcuna distinzione di casta o di condizione sociale o credenza religiosa.
Quattro anni fa dei fondamentalisti indù bruciarono vivo un missionario australiano protestante e i suoi due figli, perché lavorava tra i lebbrosi. Portarono a pretesto che operava conversioni e che aiutava illecitamente chi, secondo le credenze indù nel karma (reincarnazione), stava scontando con la malattia i peccati della vita precedente. I cristiani invece, come il Buon Samaritano, sono amici di tutti; in India quasi un terzo della carità verso poveri, orfani, lebbrosi o malati di Aids è opera di cristiani. Madre Teresa vedeva e amava Gesù nei poveri che soccorreva, nei lebbrosi, ed era per questo, solo per questo, che trovava il coraggio di abbracciare quei corpi che stavano disfacendosi.
Partendo dalla sua diocesi, che cosa caratterizza la vostra vita quotidiana? DIAS: Con i vescovi della regione occidentale abbiamo l’abitudine di incontrarci due volte all’anno, una volta si riunisce tutta la Conferenza episcopale latina e ogni due anni ci troviamo tutti insieme con i malabaresi e i malancaresi. Ci scambiamo così fraternamente molte informazioni ed esperienze, anche per aiutarci l’un l’altro. I nostri superiori a Roma vengono costantemente informati di quanto la nostra Chiesa fa per l’educazione dei ragazzi, per la cura dei malati e per la società indiana in genere: questa è la nostra vita quotidiana. Non abbiamo grandi problemi. Vi sono alcuni Stati indiani, come il Gujarat, dove la pressione di fazioni estreme si fa sentire: non vi sono in genere pericoli per le opere cristiane, ma sono purtroppo state fatte violenze a singoli missionari. Due anni fa il Gujarat ha patito la grande sciagura del terremoto, e di recente vi sono stati scontri tra indù e musulmani. Cinque anni fa le fazioni indù aggredivano i cristiani, ora lo scontro è piuttosto contro i musulmani, e noi cristiani cerchiamo di mitigare gli animi. La Chiesa cattolica viene sovente richiesta di un’intermediazione di pace, e non si tira mai indietro. Aiutiamo anche a lenire le sofferenze delle vittime dei disastri naturali. La diocesi di Bombay, all’indomani del terremoto in Gujarat, ha fatto una colletta per le famiglie senzatetto. È andata bene e la Caritas ci ha affidato la costruzione di mille abitazioni…
Inoltre, un bel fiore che abbiamo offerto alla Chiesa è quello delle numerose vocazioni religiose. In India ci sono circa settantamila preti e centomila suore per 18 milioni di cattolici, ed è forse il rapporto più alto in Asia.
La folla ai funerali di Madre Teresa. Dice Dias: «Ciò che lei ha fatto e testimoniato è una cosa viva e comprensibile a tutti gli indiani»
La folla ai funerali di Madre Teresa. Dice Dias: «Ciò che lei ha fatto e testimoniato è una cosa viva e comprensibile a tutti gli indiani»
Torniamo agli incontri romani. DIAS: Visitando la Congregazione per la dottrina della fede, il discorso è caduto su quei teologi indiani che hanno difficoltà nello spiegare la nostra fede in Gesù unico salvatore di tutti gli uomini. Il tema era già stato esaminato dalla Congregazione per l’educazione cattolica durante la visita apostolica ai seminari. Con il Pontificio Consiglio per il dialogo inter-religioso c’è stata una collaborazione fraterna, come pure con la Congregazione per il culto divino. Abbiamo chiaramente condiviso molte questioni con la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Infine c’è stato l’incontro col Papa, il quale ci ha sorpreso tutti per l’interesse mostrato ai problemi delle nostre diocesi e per il suo ricordo di tante persone incontrate e dei luoghi visitati durante i suoi viaggi nelle nostre diocesi. A Roma c’è la Chiesa universale e il Papa è fedele al suo mandato di “confermare i fratelli”.
Potrebbe rintracciare un denominatore comune nei dialoghi con i dicasteri romani? DIAS: L’inculturazione. L’India è un mosaico di culture. Non si può dire che esista una cultura indiana dominante. Il popolo indiano è, inoltre, già di per sé profondamente religioso. Gesù non è venuto per “abolire” – diciamo noi alle persone che, davanti alla sfida del cristianesimo, temono per il futuro del loro credo tradizionale –, ma a portare il compimento. Da noi, solo con la pazienza si può testimoniare Gesù: ci sono tanti ostacoli in India che la Chiesa deve affrontare, come il sistema delle caste, la corruzione, la convivenza tra le comunità religiose. Siccome non c’è una sola cultura indiana, ma più culture, molto resta nelle mani dei vescovi locali. Ad esempio, in tutta l’India sono parlate oltre duecento lingue nello Stato centrale, e chi le conosce tutte? A Bombay soltanto ce ne sono almeno sette. Così quando un testo liturgico viene tradotto, la responsabilità resta in capo al vescovo locale, cui deve andare la nostra fiducia. A Roma noi facciamo sapere che un testo è stato tradotto, e non pretendiamo che la recognitio significhi che il contenuto di quel testo sia perfetto. Per il futuro – su richiesta del competente dicastero romano – un membro della Conferenza episcopale nazionale che conosce la lingua de quo farà parte della commissione per la ricognizione.
Lei ha detto che dalla Chiesa indiana viene la testimonianza di una grande pazienza. DIAS: E di una grande apertura, che è costitutiva dello spirito indiano: ecco perché l’uomo comune, a New Delhi come a Bombay, sa che l’estremista è uno straniero, è uno fuori della cultura del nostro popolo. A Bombay c’è un santuario cattolico frequentato – e non è l’unico caso – anche dagli indù, dai sikh… Ogni mercoledì ci sono circa settantamila persone a pregare la Madonna del perpetuo soccorso, e per la maggioranza sono non cattolici. E la Madonna concede i suoi favori e le sue grazie a tutti, è davvero una mamma. È un dialogo di vita, pratico, il nostro. L’8 settembre, natività di Maria, ci sono santuari cattolici dove si radunano da due a tre milioni di persone per festeggiare la Madonna. Sono giorni di festa e di fiera. Anche degli indù vanno a salutare la Madonna per il suo compleanno. Loro ci trovano qualcosa di speciale in Maria: «Nella nostra religione» dicono «ci sono delle dee donne, invece voi avete questa donna col bambino in braccio, una mamma…». Così qualcuno di noi ha modo di spiegare loro la nostra cara fede: che quella donna è lì per via di quel bambino. E chi è quel bambino? Gesù.
Come è vissuto dalle Chiese in India il primato di Pietro? DIAS: Tutte le Chiese cattoliche-latine, siro-malabaresi e siro-malancaresi sono unite con Roma, accettano il Papa e il suo primato. Altre, pur restando fedeli alle tradizioni apostoliche, non sono in piena comunione con la Sede Apostolica di Roma. Una comunità siro-malancarese si è unita recentemente col patriarcato di Antiochia, col quale aveva da tempo rapporti. Noi siamo aperti e fraternizziamo con tutti, qualunque sia la loro disposizione verso Roma, non abbiamo problemi di ecumenismo a Bombay. Anzi, ad esempio, con altre cinque comunità non cattoliche lavoriamo assieme per la carità verso i cari defunti: lo Stato ha dato degli spazi comuni di sepoltura per i cristiani, e le cinque confessioni cristiane insieme hanno creato un trust per gestirne tutte le incombenze. C’è una tale buona intesa con questi fratelli cristiani che è un piacere lavorare assieme, avere questo dialogo così pratico. Teologicamente parlando, tra loro c’è chi non accetta il Papa, chi non condivide con noi alcune realtà di fede e di morale, però nella pratica viviamo insieme da fratelli.
Per quanto riguarda specificamente noi cattolici, il Papa è il Papa, e la Curia ci ascolta mostrando grande apertura. Ci conosciamo bene reciprocamente, noi e Roma, con un rispetto che fa onore ad entrambi, e a Roma sanno bene che è il vescovo locale a guidare santamente la sua Chiesa. In questa visione la visita ad limina è l’incontro tra la Chiesa universale e la Chiesa locale, che già rappresenta e contiene quella universale: è un esercizio di cattolicità.
Cattolici indiani in processione  a Darjeeling
Cattolici indiani in processione a Darjeeling
Nei rapporti tra Stato e Chiesa in India, c’è da segnalare qualcosa di anomalo? DIAS: No. Solo qualche disguido dovuto alla presenza nel governo centrale di taluni rappresentanti di un pensiero estremista, come ho già detto. Ma sono questioni di competenza della nunziatura e della Segreteria generale della Conferenza episcopale nazionale a New Delhi, non del singolo vescovo… Accenno qui solo al diniego del visto per i missionari, motivato dal problema del proselitismo.
All’India viene riconosciuta oggi una maggiore rilevanza politica internazionale, che il governo di New Delhi gioca spesso a favore del multilateralismo. La Chiesa si giova di questa condizione favorevole dello Stato? DIAS: Come pastore vedo che l’onda economica della globalizzazione cavalcata dall’India inquina la pasta di cui il mio popolo è fatto, cancella i suoi punti di riferimento spirituali quotidiani, e ciò mi addolora. Ricordo un’udienza che ebbi col Santo Padre, a cavallo degli anni 1983-84, quando ci si aspettava che il comunismo crollasse e subito spuntasse una nuova era. Il Papa mi disse che la capitolazione del comunismo, cioè dell’ateismo teorico, era necessaria ma non sufficiente, e che prima di poter costruire una civiltà dell’amore doveva essere sconfitto anche il capitalismo, ossia l’ateismo pratico. Non era una visione utopistica la sua, ma realistica: voleva infatti seguire Giovanni XXIII, nel suo desiderio di vedere una nuova primavera della Chiesa, e Paolo VI, che attendeva l’avvento di una civiltà dell’amore.
Ambedue questi Papi, un pontificato breve ed uno più lungo, sono tuttora fortemente presenti nell’immaginario della Chiesa, che li identifica nella stagione del Concilio Vaticano II. Ma per poter giungere ad una primavera si deve solo attendere che l’argilla sia rotta e plasmata dal Signore.
Lei viene a Roma a festeggiare il XXV anniversario dell’attuale pontificato. DIAS: Il Papa ci ha dato una bella testimonianza di ciò che vuol dire avere la fede di Pietro e il cuore di Paolo. Quando si parla di Roma si parla della fede di Pietro, la fortezza fondata sulla roccia che venti e maree non scuotono. E come san Paolo, che si è fatto tutto a tutti, il Papa ha girato il mondo intero come araldo della Buona Novella di Gesù Cristo e difensore dei diritti dell’uomo e della sua inalienabile dignità. Papa Giovanni Paolo II è stato un vero papa, ed ha avuto il tempo di affermarsi.

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